LEADERSHIP e INNOVAZIONE

Il modello Partizan non serve a niente se non viene imitato

fonte: basketnet.it del 12 aprile 2010
«E’ UN CAMPIONATO sinusoidale», strilla Paola Ellisse, la sobria telecronista che semplifica il basket ai bimbi e alle massaie.
La sua non è l’unica stravaganza nel canestro di Pasqua: il tecnico di Roma Matteo Boniciolli, che quando batte Siena scomoda paragoni con Mohammed Alì (quando perde a Cantù, allora, Stecca?), sostiene che il Montepaschi è «la miglior squadra italiana dell’ultimo decennio».
D’accordo che ingigantire i meriti dell’avversario serve ad amplificare i propri, ma forse anche l’ultima Virtus di Ettore Messina, che ha aperto il decennio con il Grande Slam, ha fatto, sempre per dirla come la Ellisse, «parecchino».
Più che allucinato, è un campionato allucinante: non c’è lotta per il vertice (al massimo, si gioca per il secondo posto) e gli unici brividi arrivano dal fondo, dove sei squadre si sudano ancora la salvezza.
Soprattutto, è un basket che si guarda intorno, ma non ha idea di quale strada prendere.
L’ultima frontiera è il modello Partizan: il glorioso club di Belgrado, arrivato alla Final four di Eurolega con i suoi monelli fatti in casa, è diventato il tema preferito dei salotti cestistici.
Fa tendenza parlarne: purtroppo, imitarlo è un altro discorso.
Per riuscirci, servirebbero in ordine sparso: a) società che investono su un tecnico, dandogli modo (e tempo) di allenare davvero e non di gestire i giocatori come accade ora; b) società che hanno voglia (e tempo) di costruire giocatori, sia allevati in casa che scovati altrove, modellando uomini prima che atleti; c) società che hanno voglia (e tempo) di credere fino in fondo in un progetto, senza cambiare strada alla prima crisi; d) società che abbiano voglia (e tempo) di scegliere stranieri in funzione della crescita di squadra e non il contrario.

Utopia? 
Lo è di sicuro in un Paese dove gli allenatori devono fare risultato oggi perché ci sia un domani, dove i proprietari giocano a fare i manager costruendo album di figurine anziché squadre, dove i giovani di buona volontà non hanno fiducia nemmeno da chi, arbitrando, può aiutarli a crescere, dove i procuratori sono pronti a sottolineare i diritti e a ignorare i doveri.
Non lo è a Belgrado dove cucinano una minestra fatta di cultura, volontà e capacità di risorgere in fretta (la Serbia, tra il 2005 e il 2008, ha fatto da comparsa).
Viva il modello Partizan, allora: a patto che non ci venga chiesto di importarlo.

Angelo Costa